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Il primo passo | La legge anti ’ndrangheta ignorata dal governo

Grazie all’imprenditore Antonino De Masi, il Consiglio regionale calabrese ha approvato la norma che premia negli appalti le imprese che denunciano. Ma a livello nazionale non si muove niente. «Se io decido di fermarmi questa gente mi ammazza», dice a Linkiesta



«Io non so se sono stato un padre scellerato che con le proprie scelte ha condizionato la vita dei propri figli, ma ho sempre fatto il mio dovere. E mi sono illuso che un giorno ci scrolleremo di dosso quest’apatia a normalizzare il male». Antonino De Masi, classe 1959, imprenditore nel settore delle macchine agricole della Piana di Gioia Tauro, in Calabria, è sotto scorta dal 2013, quando le intimidazioni dei clan di ’ndrangheta raggiungono un punto di non ritorno. Contro un portone della sua azienda, il 13 aprile di quell’anno vennero sparati quarantaquattro colpi di kalashnikov e tre proiettili vengono lasciati davanti al portone d’ingresso.


Le intimidazioni e i tentativi di estorsione erano iniziati molto prima, a inizio degli anni Duemila, quando De Masi avviò la costruzione degli stabilimenti industriali della propria azienda e arrivarono le prime minacce all’azienda che guidava i lavori. I titolari dell’impresa gliene parlarono e De Masi li accompagnò a denunciare. Gli estorsori vennero arrestati con i soldi in mano.


Da quel momento, però, ci fu un cambiamento radicale. La comunità del territorio lo considerò responsabile degli arresti «dei padri di famiglia, al di là del fatto che quei padri avessero il pacco dell’estorsione in mano», racconta De Masi. «La verità è che chi denuncia viene trattato ancora oggi come un appestato, e questo deve essere chiaro a tutti. La società marginalizza chi sceglie di farlo e il sistema burocratico rincara la dose con leggi che dovrebbero tutelare chi è vittima di estorsione e invece non lo fanno». Dopo gli arresti, la macchina burocratica amministrativa si mise di traverso e le banche si dileguarono.


È una lotta tra bianco e nero che continua a esistere, al di là della retorica dell’antimafia, accomodante e rassicurante, ma che non rende giustizia alla vita di chi continua a essere marginalizzato e fatto eroe allo stesso momento, senza avere vie di scampo. E che si traduce spesso in un totale isolamento, umano e professionale, che ha un caro prezzo.


«La mia figlia più piccola è la più giovane tutelata d’Italia, la mia azienda è una delle poche in un Paese occidentale a essere presidiata dall’esercito. C’è un check point militare all’ingresso», racconta De Masi. «Io ho scelto di rivendicare il mio diritto a restare in Calabria e a chiamarmi come mi chiamo, perché non sono io ad aver commesso reati e vorrei che anche i calabresi se ne rendessero conto».


Un bisogno che negli anni è stato alimentato anche dall’urgenza di voler contribuire direttamente a una rivoluzione culturale della regione «perché vorrei che i calabresi non mi commiserassero da morto, ma mi stessero vicino da vivo», dice. Da qui nasce il progetto “Favuriti”, «un tentativo disperato per una rivoluzione culturale», spiega De Masi. Che da questa estate inizia a farsi strada con appuntamenti culturali, concerti e momenti di discussione e dibattito nei principali festival calabresi. «L’unico modo per sopravvivere a questo sistema di antistato è risvegliare le coscienze e riappropriarci dell’orgoglio di essere quelli che siamo, per noi e anche per i nostri figli», dice. E l’intenzione è quella di farlo con la stesura di un manifesto che raccolga l’esperienza individuale di creativi, intellettuali e imprenditori che continuano a contribuire allo sviluppo economico della Calabria e a creare un racconto nuovo e meno retorico. Ma non si ferma a questo, nei prossimi mesi saranno coinvolte anche le studentesse e gli studenti degli istituti scolastici della regione con laboratori e incontri. Fino al sogno di realizzare un Expo che celebri le eccellenze e la bellezza del patrimonio calabrese.



«L’anno scorso sono stato convocato dal comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica per discutere di un progetto omicidiario che mi riguardava, volevano fare saltare in aria me e la mia scorta», racconta De Masi. «E se io decido di fermarmi questa gente mi ammazza. Cercare di riportare al centro della discussione l’orgoglio e i valori che ci identificano mi è sembrata l’unica cosa da fare».


Ma non è stata l’unica cosa che De Masi ha fatto. Lo scorso novembre il consiglio regionale calabrese ha approvato all’unanimità la legge che prende il nome di De Masi. Una disposizione che con interventi concreti va incontro agli imprenditori e alle loro imprese nella lotta alla ’ndrangheta. E lo fa disponendo un sistema premiale alle aziende che partecipano a bandi pubblici e che abbiano dimostrato di essere state vittime di atti compiuti dalla criminalità organizzata, di usura, estorsioni, o a chi ha assunto il ruolo di testimone di giustizia in procedimenti penali relativi a fatti simili.


Per queste imprese, che a fatica resistono ma hanno continuato a denunciare, verrà assegnato un punteggio del dieci per cento in fase di aggiudicazione delle gare d’appalto. Un riconoscimento per il merito e il coraggio dimostrati. «Denunciare significa ancora perdere opportunità di lavoro, essere massacrati dalla Pubblica amministrazione e passare immediatamente dalla ragione al torto», spiega De Masi. «Ma parliamo dell’esercizio di un valore costituzionale».


A livello nazionale la politica ha smesso di discutere di mafia da molto tempo. Ma un provvedimento di questo tipo potrebbe essere un segnale concreto per la sopravvivenza economica di molte realtà imprenditoriali. «La normalizzazione dell’antistato è avvenuta da tempo, abbiamo una classe politica che la lotta alla mafia l’ha messa da parte. E se sono contento che la Regione Calabria si sia fatta portatrice di questo impegno con questa legge, mi chiedo perché non sia stato presentato un provvedimento simile a livello nazionale», dice l’imprenditore. «Io questo immobilismo non me lo posso permettere, perché ho messo nelle mani dello Stato la mia vita e quella della mia famiglia. Delegare ad altri il destino dei miei figli non è possibile».


Da parte del Consiglio dei ministri l’unica reazione al provvedimento è stata la sua mancata impugnazione davanti alla Corte costituzionale. Che si temeva sarebbe avvenuta in ragione della materia trattata dal provvedimento De Masi. Il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto però ha riferito che dopo aver discusso delle perplessità sollevate da alcuni ministeri c’è stata piena comunione d’intenti. Nel frattempo, a ogni modo, non c’è stato alcun passo avanti da parte del governo Meloni sull’applicazione di una legge simile a livello nazionale. Che lascia parecchi dubbi sull’esistenza di un qualsiasi progetto politico che consideri l’antimafia dei fatti concreti come cardine del proprio operato e non solo come spot.



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